VIAGGI, PENSIERI, EMOZIONI
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Monday, September 28, 2009

Con le mani nei capelli



Ho la barba lunga. Molto lunga.

Fa caldo e ogni tanto mi prude. Spesso ho la mandibola protesa in avanti, mi gratto e penso che presto tagliero’ tutto.

Durante una passeggiata a St .James, piccolo paese poco lontano dalla baia di Chaguaramas, ho visto l’insegna che fa per me.

Barber Salon.

Salgo le strette scale, lastricate di mattonelle azzurre ed entro in quella piccola stanza piena di luce.

Il vento muoveva i pizzi delle tende che delimitavano l’apertura della finestra. La televisione ad altissimo volume invadeva l’aria pelosa.

Le luci fluorescenti ai lati dello specchio erano accese, ma ne’ quelle ne’ il giorno bastavano ad illuminare le facce nere dei due barbieri. Un grosso ragazzone e un vecchio.

Il vecchio era concentrato sulle macchine elettriche e non credo abbia nemmeno alzato gli occhi per vedere chi stava entrando.

La poltrona davanti allo specchio era libera.

Mousi mi fece cenno di accomodarmi. Aveva un pettine in mano.

Mi abbottono’ una fascietta bianca intorno al collo e poi un mantelo nero.

Zac zac.

Ah no, le forbici non servono, voglio una testa rasata, ormai non ho piu’ capelli e quelli che crescono crescono grigi.

Il ronzio della macchinetta si avvicina alle mie orecchie e sento il suono dei piccoli peli tranciati dalle lame elettriche.

L’aria della stanza e’ mossa da una grossa ventola di alluminio, ingabbiata come un grande uccello. Un cartello sopra l’orologio di legno ricorda che il regno dei cieli e’ vicino, che dobbiamo riconoscere i nostri peccati e prepararci alla nuova vita.

Un quadro appassito sorpa lo specchio. Il vecchio dice che e’ bellissimo. Forse l’ha guardato per tutti i 26 anni che ha trascorso li’ dentro, con le mani nei capelli della gente. O forse quella casa lungo il fiume e’ quella che avrebbe sempre sognato.

Mousi non dice nulla. E’ concentrato sulla perfezione della barba che mi vuole disegnare intorno alle labbra, intorno alla faccia. Taaglia i peli uno alla volta con una lametta stretta tra le dita.

Percepisco i peli tagliati. E’ un taglio preciso.

Ha lacrime tatuate sotto l’occhio e una croce divina. Dietro alla sua sagoma grande e scura un quadro pieno di teste rasate, di sculture di peli e disegni sulle nuche.

L’arte dela rasatura, titola il quadro.

Forbici, pettini, e un gioco di specchi nel quale ogni tanto mi perdo.

Mi piace potermi guardare senza fretta, una volta ogni tre mesi. Senza potermi muovere. Mi guardo dall’alto in basso e vedo che i miei occhi sono italiani. Mi piace scorpire di nuovo il mio volto, quello che avevo nascosto sotto tutto quel pelo. Mi piace sentire la precisione del metallo sui piccoli peli, la freschezza dell’acqua spruzzata sulla mia faccia. Mi piace l’alcool che brucia dentro i pori per pochi secondi,

E quel pennello, che mi spazzola la faccia, non era nelle mani del cuoco che solo un attimo fa spenellava di olio i pomodori dentro la TV?

Mi piace ripercorre i miei tagli di capelli, ordinare le rasature in una graduatoria che non ho ancora stabilito e mi vedo seduto davanti ad uno specchio. Un uomo che non ho mai visto mi mette le mani in testa. Gilson avrebbe paura, Eddie non lo sopporterebbe e per me, andare dal barbiere e’ diventato un rito, un evento speciale, un momento per guardarmi come non faccio mai perche’ non ho mai bisogno di specchi.

Qualcosa di semplice, per qualcuno settimale o mensile, e’ diventato un modo per scorpire la gente, farsi raccontare una storia.

Quella dell’Apartheid, seduto sulla poltrona di quel barbiere mezzo Italiano di Citta’ del Capo. La musica a tutto volume e l’aria calda dentro la capanna sul ciglio della strada di Quelimane, in Mozambico. La storia della famiglia di Adriano, il barbiere di Avenida Lacroze, nel quartiere nord di Buonos Aires.

E quell’ometto rotondo, con la faccia da giocatore di bocce della domenica al circolo sociale, con la voce da infante, un po’ tirolese. Era a Curitiba, nella stradina parallela a quella verso la casa del mio amico. La strada era coperta di pioggia. Era sera. Era gia’ buio. C’era un ragazzo seduto sulla poltrona. E io non volevo aspettare.

Avevo fretta di starmi a guardare


Doldrums




Scrivono canzoni di mare e di sapore di sale.
Lo vedono arrivare da lontano, nessuno sa da dove.
Comincia nel vento?

O laggiu’, laggiu’, laggiu’.

Lo senti l’eco di questo deserto vuoto?

E quella nebbia non era quello che chiami silenzio?

Quel velo d’argento, rotto da pinne di un mondo sommerso.

Sono lacerazioni senza dolore.

La ninna nanna non si ferma.

Nella culla del mondo io dormo.

Dormo

Dormo come un bimbo che ha gia’ assaggiato l’amore.

Lo trova in sogni che non ricorda e ha di nuovo profumo e colore

al primo tocco e settimo rintocco.

E’una giostra che gira.

Odo soltanto perfezione e mistero, contemplo senza spavento.

E fremo.

E tremo.

Mi attacco con i denti a frammenti di certezze che sfuggono e forse tra qualche giorno approdano.

Che forma avrai, nuovo mondo?

Ne’ pesce ne’ fiore.

Sei solo la terra.

Ancora, terra.

Quella che in fondo ho sempre amato.

In fondo.

Ci sei.

Ogni tanto riaffiori

E galleggi sopra i kilometri d’acqua che mi sono divertito a volare.

Senza paura, ma senza poter nemmeno guardare

Essere soltanto volo

Senza ali ne’ vertigini.

Eppure sospeso.

Quassu’.

Dove non posso nemmeno cadere

Posso solo morire.

Ed essere quel tuo movimento, tuo respiro.

Quello che sono riuscito a far diventare gesto del mio essere

Al contempo un’onda

Una stella

Un blocco di cemento

E tutto quello che ho cominciato

La prima volta che ho pianto

E stavo solo dimenticando.

Ho scritto queste righe ispirato da una poesia di Walt Whitman e dalla calma di qualche giorno di doldrum.

Non so quale sia la traduzione italiana per doldrum. Si tratta della ZONA DI CONVERGENZA INTERTROPICALE (ITCZ) che sta nord dell’equatore per tutto l’anno, anche se la posizione varia di molto a seconda dei movimenti stagionali del sole, ma anche nelle diverse ore del giorno. La larghezza e’ variabile ed e’ mediamente di 200 o 300 miglia.

Questa particolare condizione climatica, geografica, nautica... e’ stata un momento interessante del viaggio appena concluso, dal Brasile a Trinidad e Tobago, da Croata’ a Chaguaramas, poco lontano da Port of Spain.

Il 30 agosto, alle 11:40 abbiamo levato l’ancora dalle sabbie del delta del Rio Parnaiba.

A bordo gli otto membri dell’equipaggio e Fininho, un pescatore della zona che ci avrebbe pilotato fuori dalla foce. Senza di lui sarebbe stato impossibile uscire dalla baia senza arenarsi in qualche banco, perche’ le carte nautiche invecchiano da un giorno all’altro. Le maree spostano ernormi masse di sabbia e solo chi entra ed esce costantemente con la barca e’ al corrente delle profondita’ dei fondali.

Mentre svolgevamo le operazioni di manovra per levare l’ancora a mezzo miglio da noi galleggiava la canoa di Sio Ze’, con a bordo Antonio e Dona Luisa, i custodi dell’isola.

Un’anziana signora, madre di nove figli vissuta tra sabbia e capre per oltre 70 anni, salutava la barca nera che per 30 giorni aveva riempito la cornice della sua finestra, rispondendo alla quotidiana domanda:

Verranno oggi?

Qualche volta qualcuno andava da lei, a portarle un dolce, a prendere il pesce o a giocare a domino.

Per tutta la vita ha visto soltanto piccole canoe di legno di pescatori della zona, ha visto gamberi dentro le reti. Ed ora, da un futuro che aveva smesso di pensare e da un passato che aveva smesso di avere, e’ riemersa una barca di storie e giorni e sorrisi e abbracci.

Addii.

Fininho era appollaiato sopra la vela di mezzana, cercando di individuare in anticipo le zone di acqua bassa. Con la mano sinistra indicava al capitano la direzione da seguire, piu’ o meno a dritta, piu’ o meno a babordo.

La marea si stava alzando, perfettamente calcolata a nostro favore. Avevamo studiato in anticipo i tempi e gli orari delle maree in modo da essere sopra il punto piu’ basso in coincidenza con la marea al massimo livello. L’indicatore di profondita’ era ed e’ un po’ sballato e quindi non completamente affidabile. Erano sicuramente piu’ valide le grida di Eddie, aggrappato alle corde dell’albero maestro.

- Vedo una zona di acqua piu’ scure, 7 punti a dritta.!

Fininho sapeva quel che faceva, Eddie era allerta e il Capitano aveva il controllo generale, cercando di icrociare tutte le informazioni a disposizione

- Michelle, profondita’?

-7.2

- Dario, segna un punto nave e dimmi la profondita’ sulle carte?

- Roger....6.5

- Roger

-Juju, angolo del timone?

- 3 a dritta

-Roger, vai 5 a dritta.

- 5 a dritta....5 a dritta attivato.

- Roger

- Gilson, prepara l’ancora.

- Roger.

-Juju, cosa indica la bussola?

- 275

- Roger, vai a 280 e dammi un mark.

- Roger. ....280, mark

- Roger, segui questa rotta.

- Roger.

L’eccitazione e’ sempre alle stelle quando approcciamo o lasciamo terra. Adrenalina mista a concetrazione, tensione mista a stupore.

Fininho pensava, osservava.

Solo quando ha percepito che eravamo fuori dai banchi e’ sceso dalla sua postazione sopraelevata ed ha abbracciato tutti, felice di essere riuscito a portarci fuori senza probelmi.

- Ok, gettare l’ancora.

L’inconfondibile suono della catena che esce dal buco di metallo invase tutta la barca. Le virbazioni metalliche si spinsero fino alle punte delle mie dita. Le vidi tremare mentre scrivevo sul diario di bordo.

Ancora gettata alle 14.35 al largo di Tutoia.

Un abbondante piatto di pasta al ragu ci aspettava in Synestesia. Poco dopo Eddie stava azionando il motore del gommone legato a babordo, pronto per riportare Fininho a riva.

Il resto della truppa aspettava nuovi ordini.

Il mare era abbastanza mosso e il giorno volgeva al tramonto.

Anche se Eddie era di ritorno in meno di un’ora era troppo tardi per le issare le vele.

Avremo passato la notte ancorati in quel mare agitato, in balia del vento e dell’immediato destino.

Soltanto 8 marinai, di cui due alle primissime armi.

Se mi fermavo a pensare che stavamo per partire per un viaggio di 1500 miglia avvertivo scariche di tensione che anche se provavo a concetramri su altro, rimanevano involontariamente tra le vene, destinate a scaricarsi o a sedimentare sotto strati di pelle salata e bruciata.

Il giorno dopo, all’alba, eravamo tutti pronti.

La colazione era stata servita alle primissime luci e l’ancora e il sole si alzarono contemporaneamente.

Il mare era ancora agitato. Soffiava un vento di oltre 30 nodi, come da previsioni, ma non avevamo piu’ alcuna possibilita’ di scelta. Avremmo dovuto issare le vele quanto prima possibile per stabilizzare la barca che stava sballontando da tutte le parti quasi ingovernabile. I boccaporti erano tutti chiusi, le cime srotolate e l’argano pronto.

- Dario, vai al timone!

- Roger.

-Dario, cosa indica la bussola?

- 180.

- Ok, vai a 190.

190 era la direzione del vento. Avrei dovuto cercare i mantenere la barca quanto piu’ nel vento possibile, in modo da facilitare le operazioni per alzare le vele.

Il rollio e beccheggio rendevano difficle stare in equilibrio, ma con fatica riuscivo a mantenere la barca in rotta. Stavamo navigando verso la costa per cui avremmo dovuto terminare prima di avvicinarci piu’ di 2 miglia. Tutto a dritta, 10 a babordo, 30 a dritta.....

Stato.... dua.... tiga, urlava Eddie sul ponte, cercando di dare ritmo.

Le vele si alzavano lentamente, ma quasi ininterrottamente. I 4 che giravano l’argano erano a pochi metri da me e io potevo seguire tutta la scena dal boccaporto della cabina comandi.

A meta’ mattina Gilson suono’ i 4 rintocchi dell 10.

Le 3 vele bianche erano infilate nel cielo come lame nella carne.

Iniziavano i turni di guardia.

Addio Brasile.

Ervamo in rotta per i caraibi e tutto poteva ancora succedere.ochi giorni dopo eravamo nei pressi della foce del Rio delle Amazzoni. Osservavo le carte nautiche e sentivo una forte emozione nel vedere che stavamo costeggiando uno dei fiumi piu’ grandi del mondo, che stavamo lasciando il Brasile, approcciando l’equatore e le coste della Guyana, del Suriname, .... Era tutto un po’ irreale.

In fondo io vedevo solo un orizzonte piatto, onde e cielo. Ma a poche miglia da me c’erano altri mondi, nuovi mondi. Un uccello appollaiato sul parapetto portava qualche sapore di terra.

Eravamo a distanza di un volo, a distanza di passero.

Enormi pesci nuotavano a dritta per ore ed ore, in un sadico gioco al limite della battaglia.

Un enorme Maimai abbocco’ alla lenza di Eddie.

Eddie avvolgeva ilmulinello e il capitano era pronto ad agganciarlo con l’uncino, ma la forza con cui il pesce voleva sopravvivere spezzo’ la lenza e nello stesso istante in cui noi avevamo perso la preda lui sentiva di nuovo la liberta’.

E poi i delfini, innumerevoli e giocosi, saltavano a prua a tutte le ore del giorno. Delfini di diversi tipi. Sentirli urlare, e ridere e rimbalzre dentro e fuori dall’acqua e’ uno spettacolo che non stanca mai.

Delfini, tonni, e calma piatta.

Tramonti, albe, cene e candele.

E niente.

Pensieri e qualche momento difficle tra i marinai di una truppa che non sempre e’ facile tenere insieme.

Oceano infinito e piccolo mondo nero.
Piccolo spazio per tutto l’immenso di quello che posso sentire.

E storie, che tengo strette dentro, e quando comincio a raccontarne anche e solo qualcuna mi ritrovo gia’ di nuovo a terra.

Tra piattaforme petrolifere che incendiano la notte. Le vedi. Sono come citta’ in mezzo al niente della notte.

Le fiamme enormi, le luci elettriche. E tutte le storie dell’oro nero sono li’, a bruciare a poche miglia dala mia rotta.

Sono al tirmone da piu’ di tre ore.

Hanno bisogno di me.

Devo provare a non addormentarmi. Devo tenere gli occhi sulla bussola, sull’indicatore del timone. Devo cercare di non andare troppo a zig zag, per non confondere le altre navi.

Ho sete, ma sono sempre sul filo teso della felicita’, consapevole che questo cielo di stelle e’ anche per me.

E quelle luci sono di terra. Non sono stelle ne fiamme.

Un’altra citta’.

- Ehi, Dario, vedo qualcosa nel Radar che non dovrebbe essere li’.

- Che faccio? Cambio rotta?

- No, non ora, se vai a dritta strambiamo, il vento e’ gia a sei punti.

- Roger.

In pochi minuti la cosa scura sul radar era sopra, o sotto, di noi. La macchia della barca e la macchia sconosciuta si sovrapposero e in quel momento comincia a sentire un suono di cascata.

Era una corrente fortissima. Io ero al timone e non potevo vedere niente, ma guardando la bussola mi resi conto di quello che stava succedendo. Non potevo piu’ governare la barca. Si era infilata nella corrente e stavamo andando verso la costa a piu’ di 3 nodi.

- Gilson, aziona i mori

- Roger.

Appena sentii il rombo il capitano mi ordino’ di azionare la marcia e di ritornare alla rotta che stavo seguendo. Nel frattempo sul ponte stavano mettendo le vele in mezzadria. Vento a sei punti.

Nella notte attraversammo lo stretto della Bocca del Dragone, che divide Trinidad dal Venezuela.

Alle 9 del mattino del 20 settembre stavamo gettando l’ancora nella baia di Chaguaramas, dopo un viaggio che ha qualcosa di storico.

Equipaggio ridotto, dal Sud America al Centro America, dopo 6 mesi in Brasile, attraverso l’equatore, Terra di vecchi amici e di marinai del passato, per continuare questa spedizione che dal mare dei coralli al mare nero prima di tutto vuol conoscere l’uomo.





Tuesday, September 22, 2009

Trinidad & Tobago

Il 20 settembre 2009 alle 9 del mattino abbia gettato l'ancora poco lontano d aPort of Spain, nel Golfo di Paria, in acque di Trinidad e Tobago, caraibi.
Scrivero' presto per raccontare l'esaltante, inteso, duro viaggio di tre settimane dal Brasile ai caraibi.